Alla ricerca del senso

UN PROGETTO DI ROBERTA COLONNA PER IGEIA

DEATH EDUCATION

ALLA RICERCA DEL SENSO:

ESSERE VIVI FINO ALLA MORTE


Lavoro in ambito sanitario dal 1989.
La vita mi ha portato a svolgere una professione che non avrei cambiato con nulla,mi occupo di assistenza e continuo a credere che prendersi cura degli altri sia un grande dono, una possibilità di crescita interiore difficilmente riscontrabile in altre professioni.

Sono passati molti anni (quasi 35...), il mondo è cambiato, io sono cresciuta e ho imparato ad osservare ciò che mi accade intorno da una posizione neutrale, come se fossi spettatrice della mia stessa vita; devo riconoscere che ciò che ho visto (e sempre vedo) là fuori non corrisponde alla mia idea di assistenza e di presa in carico della persona.

Sono convinta che il vero ruolo di coloro che , come me, stanno svolgendo il proprio servizio in questo tempo, sia quello di guardare oltre, proiettandosi in un mondo nuovo che ci parla di integrazione, di olismo, di visione dell'uomo come essere umano completo, immerso nella propria realtà, in grado di amare, soffrire e portare avanti la propria esperienza di vita fintanto che l'unica risposta biologica e animica possibile sarà il grande passaggio: la morte.

Ma siamo certi che questi argomenti riguardino il nuovo, e non siano invece parte integrante di un "vecchio" da riscoprire, da rispolverare?

Quando ho iniziato la mia attività professionale, nel 1986, la persona malata veniva ancora vista come essere umano con un problema, più o meno grave, più o meno curabile. L'uomo era al centro dell'assistenza, e le attuali logiche aziendali , irrispettose e denaro-centrate , era spettri ancora lontani a venire.

Dopo più di trent'anni, a settembre 2021 sono stata sospesa per aver rifiutato di obbedire ad una imposizione che era molto lontana da ciò che io volevo per me stessa, per il mio corpo e, soprattutto, per la mia anima; la sospensione è durata 14 mesi.

Appartengo al servizio di cure palliative che fa capo ad un grande ospedale, mi occupo di persone affette da patologie oncologiche o cronico degenerative end stage nell'area appenninica. Gli abitanti di questo vasto territorio sono assistiti da due medici dipendenti ANT, da me e da un'altra collega; alla mia sospensione il posto è stato lasciato scoperto per tutto il periodo. Questo significa che una già scarsa assistenza, caratterizzata da carenza di personale e problemi organizzativi, ha subito un'ulteriore riduzione. Una parte della popolazione, numericamente significativa, ha dovuto rinunciare alla possibilità di usufruire di cure palliative nella fase terminale della vita, percorsi di accompagnamento già in essere sono stati bruscamente interrotti, senza alcuna spiegazione, per assecondare le logiche politiche che la nostra classe dirigente ha abbracciato senza titubanza. Come se le persone avessero più di una occasione per vivere una “buona morte”.

All'inizio, colta di sorpresa (ma neppure tanto...) da ciò che stava accadendo, sono stata attraversata da emozioni contrastanti e turbolente, dispiaciuta per ciò che non potevo più fare, disgustata dal comportamento di parte dei miei colleghi che, in buona percentuale, hanno ceduto al ricatto per non doversi trovare a discutere coi coordinatori.

Ho sempre pensato che entrare nella vita di una persona che sta morendo e relativa cerchia familiare sia un atto sacro, e richieda una purezza e una coerenza alle quali non ho potuto rinunciare, neppure di fronte alla minaccia della sospensione dal lavoro.

Dopo un primo periodo di smarrimento, di fronte alla certezza granitica che mai sarei scesa a compromessi con la mia scelta, ho iniziato a ricostruirmi, comprendendo che il mio valore umano / spirituale è di gran lunga superiore al ruolo che rivesto all'interno di una organizzazione che si allontana sempre più dalla mia idea di bellezza.

Mi sono chiesta se può esistere un altro modo di portare me stessa e le mie conoscenze, al di fuori degli schemi e delle logiche aziendali.

Ho proseguito la formazione relativa all'accompagnamento spirituale nel fine vita e nei percorsi di malattia, e ho compreso che ciò che io sono, ciò che io incarno, nessuna norma barbara potrà portarmelo via. Mai.

Ho iniziato quindi a pensare ad una figura nuova, un essere umano, senza etichette e fregi, che porti tutte le competenze professionali assistenziali sviluppate in più di trent'anni e il proprio valore spirituale a coloro che sentono il bisogno di ricercare un senso nel tempo limitato che segue una diagnosi infausta, e che precede spesso la fine della vita terrena.

Ed è proprio questo il contributo che sogno di portare all'interno del “mondo che verrà”, che numerose realtà "alternative" alla medicina allopatica stanno cercando di svelare: assistere, accompagnare le persone che stanno affrontando un percorso di malattia, percorrere un pezzo di strada insieme a loro, rimanendo al loro fianco, e non arrogantemente davanti o timorosamente dietro.

Ci vuole coraggio a camminare pari passo ad una persona che si sta avvicinando alla morte, ci costringe a guardare in faccia la nostra finitudine, a comprendere che non siamo molto diversi dall'altro : in fin dei conti, la verità è che stiamo tutti morendo, è solo questione di tempo.

Troppo spesso le persone se ne dimenticano, più o meno consciamente.
Perdere di vista questo principio, ha condotto un ambito prezioso come quello delle cure palliative a trasformarsi in un servizio con prevalenza tecnica, vincolato ai protocolli e alle logiche aziendali; nulla può definirsi meno “meccanico” e catalogabile della traiettoria di fine vita, ognuno muore a modo proprio, solitamente in modo molto similare a come ha vissuto. Le persone che incontro, hanno un terribile bisogno di essere ascoltate, viste e talvolta toccate; ciò che spesso lamentano, soprattutto coloro che rimangono schiacciate nel “tritacarne”dei trattamenti oncologici, è una mancanza di relazione umana, e la sensazione di essere trattati per la patologia, ma non come persone.

Quando , per esempio, abbiamo a che fare con una paziente portatrice di tumore al seno, si dovrebbe tenere presente che la mammella malata appartiene ad un essere umano,che intrattiene relazioni, prova emozioni e vive in un ambiente che condiziona, e dal quale viene a sua volta condizionata.

Se la medicina allopatica allargasse gli orizzonti alla biologia, dovrebbe riconoscere che gli stimoli biologici , attraverso la relazione cervello - organo, possono condizionare sulla distanza, la salute delle persone.

Dovrebbe quindi ridare dignità al principio ippocratico secondo il quale, prima di curare una persona, bisognerebbe chiederle se sia disposta a rinunciare alle cose che l'hanno fatta ammalare.

Proprio qui si trova lo spazio di intervento della presa in carico precoce da parte delle cure palliative: esplorare la relazione tra la persona e la malattia, attraverso il racconto del proprio sentito, che ha trovato nella medicina narrativa un ambito molto significativo. Talvolta capita che le persone riportino il fatto di non essere mai state ascoltate veramente durante il percorso di malattia; inoltre, si accorgono di avere rivolto poca attenzione a loro stesse, di non avere prestato attenzione al loro sentire, alle loro emozioni.

Questo è un altro aspetto terribile, indotto da questo tempo che rivela aspetti molto simili ad uno scritto kafkiano: tutta la confusione mediatica alla quale le persone vengono sottoposte e la propaganda martellante che ha caratterizzato questi tempi, hanno portato gli esseri umani ad allontanarsi dalla loro essenza più profonda, spirituale. Lo spazio sacro che caratterizza ognuno di noi, così abilmente celato da sovrastrutture , talvolta innate, spesso indotte, è quello che ci consente di avvicinare veramente l'altro, di entrare in reale connessione al fine di svolgere il lavoro prezioso di elaborazione di ciò che accade, e di ricerca di senso all'interno della nostra realtà.

Frankl, noto psichiatra che ha vissuto l'abominio dei campi di sterminio, afferma che è in nostro potere trasformare il destino in destinazione; questo significa che non sempre possiamo scegliere ciò che ci accade,ma sicuramente possiamo decidere come affrontare ciò che la vita ci pone di fronte.

Ecco lo spazio di libertà. Ecco come rimanere vivi fino alla morte, come citato nel titolo di questo documento. Troppo spesso le persone alle quali viene comunicata una diagnosi infausta, infatti, focalizzano tutta l'attenzione alla patologia e agli aspetti diagnostici / terapeutici che vengono proposti.

Vivono in funzione della prossima TC, del prossimo controllo, del prossimo vaticinio dell'esperto di turno, dimenticandosi che il tempo che c'è, lungo o breve che sia, è un tempo prezioso (sarebbe importante che anche le persone in buona salute tenessero presente questo principio...), che va vissuto cogliendone il valore, in spirito di grande gratitudine.

La responsabilità del personale sanitario in questo aspetto della vita dei pazienti è enorme, perchè la maggior parte delle persone non è in grado di approdare ad una idea così raffinata di gestione del tempo carico di senso (kairos), ma si limita a conteggiare sull'orologio il tempo ordinario (kronos), così come ci hanno insegnato fin da quando eravamo bambini. Dovremmo essere quindi noi, che accompagniamo nel percorso di malattia, a condurli su questo nuovo terreno sacro, a dare valore a quello che rimane, riportando in secondo piano gli aspetti collegati a “ciò che non c'è più (forza fisica, performance,etc.).

E' certamente importante l'attenzione alla malattia del corpo fisico, le cure attive proposte , purchè rimangano nei limiti etici di una decenza ormai persa di vista: pur di non fermarsi a parlare con la persona malata, maneggiando anche argomenti scomodi quale la impossibilità di trattare ancora attivamente la patologia, si preferisce proporre una serie infinita di linee di chemioterapia, pur nella consapevolezza che non produrranno più alcun effetto positivo, ma senza dubbio arrecheranno danno, rendendo il tempo che rimane un vero calvario.

Tutto questo, oltre a denotare una scarsissima onestà intellettuale e morale, contrasta drammaticamente col concetto etico di giustizia distributiva, secondo il quale le scarse risorse a disposizione andrebbero impiegate nei casi in cui si possa pensare di ottenere un buon risultato, in termini di qualità/quantità di vita. Come dire che la nostra incapacità di stare nella sofferenza dell'altro, non dovrebbe giustificare il “furto” del tempo che rimane ad una persona che si è incamminata lungo il sentiero dell'ultima parte di questa vita terrena. Cosa rimane da fare, quindi, quando la medicina allopatica dimostra il proprio fallimento,e le armi a disposizione hanno abbondantemente dimostrato la loro inefficacia, e l'inadeguatezza a trattare una condizione di disequilibrio biologico/ emozionale quale è il cancro? La persona si sentirà inevitabilmente abbandonata? In realtà questo non accadrà,se nel percorso di malattia si sarà creato un legame potentemente spirituale con la persona accompagnata; se la relazione instaurata sarà stata significativa, questo delicato passaggio, dalle cure attive alle cure di supporto, avverrà certamente con sofferenza, ma senza disperazione.

Se saremo stati efficaci nel ruolo di “naviganti” nel percorso di malattia, l'idea che si può guarire anche se non ci si può più curare si trasformerà da piccolo seme a grande certezza, fonte di serenità e pace, pur nel turbinio di emozioni che può precedere il passaggio. Nessuno può dire infatti di non essere intimorito all'idea della morte, che rimane, in fin dei conti , il mistero per eccellenza; quel che si può senz'altro ottenere, è di avvicinarsi alla morte senza essere sopraffatti dal terrore, utilizzando il tempo che rimane per sistemare ciò che ci affligge o preoccupa, così da potere andare oltre la barriera della morte nel modo più sereno, e liberi da attaccamenti.

Questo non significa essere grandi meditanti o religiosi esperti, beato chi può aggrapparsi al”salvagente “ di una religiosità sincera, autentica, ben diversa dall' ”impanatura cattolica” dentro la quale tutti noi siamo stati invischiati.

Anche una persona laica o agnostica, per esempio attraverso la medicina narrativa, può comprendere che sopravvivere a se stessi, proseguendo il viaggio nel cuore e nei ricordi degli altri, è un ottimo coronamento per una vita umana onesta.

Certamente, persone che hanno trascorso buona parte della vita in una ricerca spirituale significativa e soddisfacente, potrebbero avere la strada spianata nel passaggio di dimensione, consapevoli che nulla finisce, che l'inevitabile ritorno a casa non può che essere fonte di gioia autentica e di pace.

Un progetto come questo, che riempirebbe di senso la vita fino in fondo, fino all'ultimo respiro, prevederebbe diversi steps, alcuni di natura informativa, altri di natura formativa. Innanzitutto, sarebbe fondamentale coinvolgere il maggior numero di persone esterne all'ambito sanitario in percorsi informativi riguardanti la death education.

Fino a che non verrà riconsiderata la natura mortale di ogni essere vivente,uomo compreso, e non si accetterà che la morte fa parte del contratto di nascita, sarà molto difficile divulgare una cultura di rispetto della vita, che abbia il sopravvento sulla tendenza a rincorrere la salute a tutti i costi. Strettamente correlato a questo aspetto, la parte educativa legata alle buone pratiche alimentari, alla cura del corpo fisico come mezzo che ci consente l'esperienza, alla gentilezza nei confronti di noi stessi, al rispetto delle nostre fragilità, al coraggio di interrompere relazioni che ci suscitano emozioni negative: “non di solo pane vive l'uomo”. Di grande rilievo sarebbe la parte formativa ( intesa come “uscire da una forma per acquisirne un'altra”, come citato da un carissimo amico) che potrebbe coinvolgere i professionisti della salute e dell'assistenza in genere; nulla a che fare con l'attuale tendenza formativa “a punti”, spesso di pessima qualità e comunque inquadrata nelle logiche aziendali.

Chiunque entri in contatto con le persone che soffrono , ma in modo particolare con pazienti in fine vita,dovrebbe avere la possibilità di ricevere nozioni fondamentali di death education e di assistenza spirituale, che nulla ha a che fare con l'ambito religioso. Riguarda piuttosto,come già citato, la capacità di condurre l'altro nella ricerca di senso rispetto alle cose che accadono, di essere presenti come professionisti, ma soprattutto come esseri umani.

Senza dubbio, un percorso di questo tipo per “addetti ai lavori”, non potrebbe prescindere da un profondo lavoro di conoscenza personale e di crescita, perchè penso che sia inequivocabile che, in un terreno sacro come il fine vita, trasmettiamo solo ciò che siamo intimamente. Se noi per primi non abbiamo affrontato e almeno in parte risolto le grandi questioni esistenziali, al di sopra delle quali primeggia senz'altro la paura della morte, difficilmente potremo essere efficaci nel camminare a fianco di qualcuno che sta avvicinandosi alla fine dell'attuale incarnazione. Ed è un vero peccato, perchè, come già detto, non avrà una seconda occasione in questa vita.

Ecco il mio sogno. Se il delirio della pandemia non fosse stato messo in scena, forse sarebbe rimasto un piccolo seme ben sepolto sotto la terra; la consapevolezza di valere molto di più di ciò che mi viene attribuito dall'etichetta professionale, la completa perdita di fiducia nei confronti delle aziende sanitarie e il desiderio di portare me stessa nel mondo, di rispettare il mio “compito” animico, hanno fatto sì che questa piccola piantina abbia trovato la forza di germogliare e di rinvigorire. Spero, anzi sono certa che , da qualche parte nel mondo, altri sognatori come me stanno cercando la loro strada. Chissà che queste strade non possano convergere....

Grazie a tutti, Roberta